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  • 24-02-2021
"LA CASA E' ABUSIVA E IL PROPRIETARIO NON LO SA. UN CASO DI AFFIDAMENTO INCOLPEVOLE NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE" di Simona Manganiello

Si è posta all’attenzione dello Studio la vicenda del proprietario di un immobile il quale, in procinto di stipulare un preliminare di compravendita ed in occasione della raccolta della documentazione tecnica propedeutica al perfezionamento della promessa di vendita, scopre che una porzione dell'immobile di sua proprietà è difforme alla disciplina edilizia.

In disparte la questione civilistica sulle iniziative che il promittente acquirente si può riservare di intraprendere nei confronti del proprietario, qual é il percorso che il proprietario deve intraprendere per sanare le irregolarità?

Anzitutto, occorre inquadrare la fattispecie nei seguenti termini: il proprietario, prima della vendita, esegue una ristrutturazione che riceve l'assenso del Comune. Il provvedimento autorizzativo, tuttavia, veniva rilasciato del tutto erroneamente, in violazione della normativa edilizia vigente.

Quali le sorti del provvedimento comunale? Come questo incide sulla futura commerciabilità del bene?

Poste questi quesiti preliminari, si deve da subito rilevare come permane, in capo al Comune, non solo il potere di disporre in via di autotutela la revoca del proprio precedente provvedimento autorizzativo – poiché emesso in assenza dei presupposti – ma anche il conseguente potere sanzionatorio, legato al “redivivo” carattere abusivo dell’intervento edilizio realizzato. 

Un primo profilo interpretativo che ha interessato la giurisprudenza sul punto, è legato alla necessità di capire se e con quali limiti si eserciti il potere del Comune di ritornare sulla propria decisione – con un provvedimento che rimuove la preesistente formale liceità della situazione giuridica del privato e lo espone al rischio di sanzioni.

Quanto all’aspetto temporale, il dubbio che si è posto è relativo al necessario contemperamento dei vari valori in gioco, da una parte, la tutela del territorio e della legalità e, dall’altra, la certezza dei rapporti giuridici e la tutela dell’affidamento del privato, laddove questo del tutto legittimamente possa e debba confidare nella stabilità degli effetti giuridici legati alle determinazioni della pubblica amministrazione.

Ebbene, la giurisprudenza ha chiarito anzitutto che nessun legittimo affidamento si produce (né può essere invocato in giudizio) nel caso di un’opera realizzata in totale assenza di titolo abilitativo, per cui il privato sarà sempre soggetto alle conseguenze del carattere abusivo del proprio operato, in primis all’ordine di demolizione, che costituisce la sanzione “principe”, anche a distanza di anni dalla realizzazione dell’opera abusiva; ma cosa succede se, come nel caso in esame, il privato ha eseguito le opere di ristrutturazione in presenza di un titolo abilitativo valido sotto il profilo formale, ma annullato dalla p.a. in un momento (anche di molto) successivo? La giurisprudenza ha giustamente valutato come si versi in una situazione molto diversa in quest’ultimo caso, poiché le opere sono state eseguite in conformità al titolo abilitativo erroneamente rilasciato e poi successivamente rimosso. 

In tali ipotesi l’amministrazione pur conservando il potere di annullamento del proprio atto illegittimo in autotutela, anche nei confronti dell’attuale proprietario che non ha commesso l’abuso (Consiglio di Stato, A.P. sent. n. 9/2017) non può prescindere dall’effettuare una valutazione (e, dunque, motivare nel proprio provvedimento) sull’attualità dell’interesse pubblico al ripristino dello status quo ante, attualità che deve declinarsi anche con riguardo alla tutela dell’affidamento del privato, specie se incolpevole dell’abuso.

La tutela dell’affidamento, tuttavia, vive in margini piuttosto circoscritti (rappresentati nell’altra pronuncia-cardine del Consiglio di Stato, A.P. sent. n. 8/2017) e non consente, ad esempio, alcun tipo di tutela risarcitoria nei confronti dell’amministrazione. 

Per quanto riguarda poi il termine entro il quale l’amministrazione può ritornare sul proprio atto con un annullamento in autotutela, la giurisprudenza ha osservato che in assenza di una specifica disciplina, si applica al relativo potere il testo dell’art. 21 nonies come in ultimo modificato, L. 241/1990, secondo il quale oggi l'annullamento d'ufficio deve intervenire entro un termine ragionevole, «comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici». 

Dopo la scadenza di tale termine – il cui dies a quo decorre non dal compimento dell’abuso ma da quando l’amministrazione ne è a conoscenza – possono essere annullati d'ufficio solo «i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato». 

Nel caso di ritiro tardivo in autotutela di un atto amministrativo illegittimo ma favorevole al proprietario, si radica comunque un affidamento in capo al privato beneficiato dall'atto in questione e ciò giustifica una scelta normativa (quale quella trasfusa nell'art. 21 nonies l. n. 241 del 1990) volta a rafforzare l'onere motivazionale gravante in capo all'amministrazione. Si tratta di stabilire sino a che punto e in che termini l'ordinamento si debba far carico di tutelare un siffatto stato di legittimo affidamento; al contrario, nel caso di tardiva adozione del provvedimento di demolizione, la mera inerzia da parte dell'amministrazione nell'esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l'edificazione sine titulo) è sin dall'origine illegittimo. 

Si è poi valutato come nel caso in esame non sia possibile neppure invocare in favore del cliente il rimedio posto dall’art. 36 D.P.R. 380/2001, ovverosia la richiesta di accertamento di conformità in sanatoria dell’opera abusiva, sanatoria che presuppone la cosiddetta “doppia conformità” dell’opera, che deve essere sussistente sia al momento dell’esecuzione dell’opera sia al momento della domanda di sanatoria- circostanza non avveratasi nel nostro caso.

Quanto all’applicabilità dell’art. 38 D.P.R. 380/2001 si osserva come a complicare il quadro, già invero piuttosto compromesso per il cliente, vi è una pronuncia relativamente recente del Cons. Stato, sez. VI, 9 maggio 2016, n. 1861, secondo cui, in caso di annullamento del permesso di costruire, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei «vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino», l'effetto, per così dire, «sanante» previsto dall'art. 38 d.p.r. 380/01 va circoscritto alle sole ipotesi nelle quali il titolo edilizio sia stato annullato per vizi di carattere solo formale o procedurale, non essendoci così alcuno spazio per applicare le previsioni di cui all'art. 38 cit. ove sia stata accertata in sede giudiziale la sussistenza di un vizio del titolo avente natura sostanziale. 

Resta da percorrere, a parere di chi scrive, la strada della tardività del provvedimento di annullamento, utilizzando quale argomentazione principale il fatto che nessuna ulteriore opera è stata eseguita sull’immobile se non quella inizialmente licenziata per errore della stessa amministrazione, che dunque non poteva non conoscerne l’esistenza, non essendo intervenuta in un tempo ragionevole (si tratta nel caso di studio, di oltre vent’anni) per rimuovere il proprio precedente provvedimento assentivo.