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  • 26-04-2021
"I REATI FISCALI E LA CRISI DI IMPRESA: QUANDO IL MANCATO PAGAMENTO DELL'IMPOSTA NON COSTITUISCE REATO" di Giovanni Renna

La crisi di impresa ha avuto come effetto immediato quello di privare le imprese della liquidità necessaria per far fronte ai debiti tributari.

Nonostante l'esigenza di salvaguardare il gettito fiscale, è maturato via via il convincimento dei giudici di legittimità che possono esistere dei casi ("isolati") in cui il mancato pagamento dell'imposta non sia addebitabile all'imprenditore.

Si tratta del caso in cui il mancato pagamento sia causalmente collegato ad una situazione di crisi imprevedibile. 

Di fronte all'esigenza di salvaguardare la produttività, l'imprenditore sarebbe esente da colpa se tra pagare l'unico fornitore e invece assolvere al debito tributario, questi abbia optato per la prima soluzione, nella convinzione che la scelta avrebbe salvato le sorti dell'impresa.

Si registra, tuttavia, come queste ultime aperture si siano recentemente irrigidite e che la condizione di inesigibilità si stia affrancando a fenomeno del tutto eccezionale.

Solitamente accade che alla scadenza prevista per il pagamento delle imposte, l'imprenditore non abbia la consistenza di cassa per far fronte al pagamento.

La prima verifica che deve essere compiuta è capire le ragioni.

Se il mancato pagamento è dipeso da una gravissima, quanto imprevedibile, crisi di liquidità, allora si può procedere alla fase successiva.

Questa seconda fase richiede una preliminare valutazione dei bilanci, specialmente delle voci attive della consistenza di cassa e dei ricavi. Tra le passività, sono di rilievo l'andamento dei costi e l'incidenza di questi sui ricavi e sul magine operativo lordo. 

L'analisi è essenziale per comprendere l'evoluzione dell'impresa e se lo stato di crisi era prevedibile.

Ad esempio, un brusco crollo dei ricavi è un indice che potrebbe riscontrare la tesi dell'imprevedibilità della crisi.

La terza verifica da compiere è quella sullo stato del contenzioso.

Un'impresa costantemente interessata da richieste di pagamento è senza dubbio un elemento negativo, perché rappresentativo di una incapacità di gestire la governace.

Al contrario, un contenzioso introdotto dall'impresa per il comportamento scorretto di un istituto di credito, è certamente un tema che potrebbe riscontrare la tesi dell'inesigibilità, specie quando sia la causa della crisi.

Individuata, pertanto, la causa della crisi, l'amministratore deve dimostrare che questa è stata imprevedibile.

Non solo: dovrà fornire la prova di aver fatto tutto quanto necessario per affrontarla, ovvero dare dimostrazione:

1) di aver attivato il contenzioso giudiziario;  

2) di aver protetto la società dal rischio di dissesto;

Infine, l'amministratore dovrà dimostrare che la crisi non sia imputabile a sua colpa.

L'amministratore deve provare di non aver tenuto comportamenti che abbiano danneggiato la sua azienda, dando dimostrazione di aver adottato alcune fra le seguenti misure ulteriori a tutela dell'impresa:

    - la sospensione del proprio compenso di amministratore;

    - la liquidazione di titoli personali per un importo necessario a far fronte alla crisi;

- la dismissione di alcuni cespiti, per recuperare liquidità, e così liberando l'impresa da pesanti garanzie.

La prova che la condotta dell'amministratore non era preordinata all’omissione del pagamento può essere riscontrata dalla presenza di provvedimenti dell'autorità giudiziaria in senso favorevole all'imprenditore.

La sentenza che accerti un'ipotesi di usura bancaria è senza dubbio elemento di rilievo, specie se l'usura è stata la causa della crisi. Al pari della sentenza, assume la medesima efficacia il provvedimento sospensivo ex art. 20, L. 44/1999.

L’orientamento giurisprudenziale unanime, ispirato al principio costituzionale dela responsabilità penale personale (art. 27 Cost.), riconosce alla “crisi di liquidità” un valore esimente riconducibile all’assenza di dolo. Oltre alle numerose sentenze della giurisprudenza di merito, si riscontrano pronunce della Corte di Cassazione secondo cui nel reato di omesso versamento di ritenute certificate, la colpevolezza del sostituto di imposta può essere esclusa “qualora l'imputato dimostri che la crisi di liquidità, intervenuta al momento della scadenza del termine per la dichiarazione annuale relativa all’esercizio precedente, non sia a lui imputabile e che la stessa, inoltre, non possa essere altrimenti fronteggiata con idonee misure anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale; a tal fine, non si ritiene solitamente sufficiente allegare un comprovato stato di crisi, ma si richiede la dimostrazione di avere perseguito ogni strada utile per poter comunque provvedere all’adempimento del debito tributario”.

Si tratta, è bene precisare, di una corrente che giunge a consacrare (e qui sta l’elemento di novità) il giudizio di non rimproverabilità dell’amministratore anche in quei casi (non ritenuti meritevoli dall’orientamento tradizionale), come quello di specie, in cui: a) è l’imputato stesso ad omettere il versamento delle ritenute alle scadenze periodiche fissate dalla disciplina tributaria e non precedenti amministratori; e b) l’accertata crisi di liquidità in cui versava la società non può dirsi “assoluta”, giacché l’imputato – pur disponendo della liquidità necessaria ad adempiere all’obbligo tributario – destinò le poche risorse societarie all’assolvimento delle altre contingenti esigenze.